Il
karate tradizionale coinvolge in modo equilibrato la componente fisica
e quella mentale dell’individuo. Inoltre, attribuisce notevole
importanza alla forma. Questa costituisce infatti la sfera oggettiva
di un processo mentale ben definito e, superando il dualismo tutto occidentale
che vede troppo spesso una scissione fra corpo e mente, quasi che l’uno
si trovasse in uno stato di inferiorità rispetto all’altra,
rende visibile ciò che è stato ideato, pensato, voluto.
Così come la parola è la forma di un concetto, il movimento
è l’espressione formale di un contenuto. Sebbene nelle
culture asiatiche la contrapposizione fra corporeità e spiritualità
sia inammissibile, tuttavia anche in occidente questi aspetti dell’umana
natura cominciano a essere considerati reciprocamente imprescindibili.
La scienza come sempre, ci è di aiuto, così studi condotti
in campo anatomico-funzionale permettono di sostenere quanto, nella
nostra cultura, permeata nel bene e nel male da influssi aristotelici,
era fino a pochi decenni orsono quasi un improperio. Non esiste infatti
un cervello per pensare, uno per parlare e un altro ancora per muoversi,
ma un unico complicato e affascinante sistema che coordina l’intero
nostro essere, fisico e mentale. Il movimento specifico di una disciplina
sportiva va considerato come una corretta e giustapposta sequenza di
atti corporei, eseguiti dall’insieme degli organi dell’apparato
locomotore, coordinati dagli impulsi inviati dal sistema nervoso, lungo
percorsi più o meno veloci, vie più o meno dirette, secondo
necessità.
Quando abbiamo appreso i meccanismi più elementari per risolvere
semplici problemi aritmetici, ci siamo sottoposti a notevole fatica.
Attualmente, ogni volta che calcoliamo una banale moltiplicazione, non
ci sentiamo particolarmente afflitti, ma attingiamo automaticamente
a quel bagaglio di conoscenze di cui ci siamo appropriati molto tempo
fa. Abbiamo una “scorta di sapere” che ci permette, utilizzando
le facoltà di memorizzazione, di elaborazione, di applicazione
e di espressione, di risolvere problemi cognitivi più o meno
complessi. Il movimento non fa eccezione: trovare soluzioni a un problema
motorio non è particolarmente diverso dal risolverne uno linguistico,
matematico, filosofico.
Memoria
gestuale
La prima volta che abbiamo calzato un paio di sci, affrontato l’acqua
del mare o montato una bicicletta, ci siamo trovati in una situazione
simile a quella di apprendimento delle tabelline. Oggi, anche a distanza
di tempo, appena riviviamo le stesse esperienze, dopo pochi attimi necessari
per richiamare alla nostra “memoria gestuale” la corretta
successione dei movimenti, riusciamo a sciare, nuotare o pedalare senza
difficoltà. Il miracolo è compiuto: il nostro bagaglio
di “nozioni motorie” ci permette di attingere automaticamente,
come a un dizionario di una lingua sconosciuta, alla chiave di risoluzione
del problema, limitando grandemente la fatica. Tutto questo non è
sfuggito allo studio e all’approfondimento degli scienziati. Infatti,
è dimostrato che, per apprendere nuovi movimenti in una specifica
disciplina, vengano impegnate contemporaneamente vaste zone del cervello,
essendo necessaria una concentrazione che stimola un alto tenore di
vigilanza mentale, mentre, nell’esecuzione di gesti noti da parte
dell’atleta esperto, la coscienza cede il passo all’automatismo.
In questo modo, sono coinvolte zone più ristrette del cervello,
a tutto vantaggio dell’economia del movimento e della sua corretta
performance.
Fare
e pensare
Un atleta può ottenere grandi risultati anche in virtù
della capacità di automatizzare in modo adeguato le tecniche
tipiche del proprio sport e può allenare questo aspetto utile
all’ottimizzazione della gestualità. Come? Semplicemente
affiancando al fare il pensare. Infatti da qualche anno, le pratiche
di mental training (allenamento mentale) sono largamente usate come
metodica per l’incremento della prestazione, specialmente in quelle
discipline che vedono, nella corretta esecuzione formale del gesto tecnico,
uno degli elementi principalmente condizionanti il risultato. Attivare
l’intelligenza motoria di un atleta, mettendolo in condizione
di pensare all’azione migliore, permette di elevarne il livello.
Infatti, è ormai dimostrato che immaginare una sequenza gestuale
stimola nel soggetto gli stessi processi che avvengono durante la pratica
nella gara vera e propria. Inoltre in questo modo, vengono attivati
anche i muscoli, agonisti e antagonisti, specificamente deputati ai
movimenti, mentre gli impulsi nervosi rimangono al di sotto della soglia
necessaria alla contrazione muscolare e quindi all’effettiva esecuzione
motoria. Pare che, secondo recenti teorie, l’utilizzo frequente
di collegamenti adeguati acceleri lo scambio di segnali fra i neuroni
migliorandone l’interazione e favorendo così la coordinazione
del movimento. E importante quindi affiancare all’allenamento
tecnico pratico un opportuno esercizio mentale. L’atleta deve
“vedersi” nell’eseguire la propria progressione, creando
un’immagine “ideomotoria” del proprio movimento, per
trarne il massimo vantaggio nella realtà. Quali e quanti possono
essere i benefici di questo tipo di allenamento? Domanda pertinente,
ma di difficile soddisfazione. Per rispondere in modo adeguato, sarebbe
necessario stabilire quantitativamente un risultato, assegnando in modo
univoco un valore alla prestazione prima e dopo un programma di meritai
training, senza lasciarsi coinvolgere troppo da facili attrattive. Non
è sufficiente infatti accontentarsi della qualità della
performance atletica, come la vincita di una gara, ma è consigliabile
invece ricercare anche la “quantità” del successo:
si potrebbe vincere, paradossalmente, per incapacità degli avversari
o per accondiscendenza della classe arbitrale, non perché si
è decisamente e quindi quantitativamente migliori.
Nel karate, una sorta di allenamento mentale è sempre stato caldamente
raccomandato, per la naturale attenzione delle arti orientali nei confronti
della meditazione. Infatti, chiunque abbia partecipato non solo alla
vita quotidiana di palestra, ma anche a momenti agonistici di rilievo,
ricorderà di essersi dedicato con particolare impegno alla rappresentazione
mentale del proprio esercizio di forma preferito (tokui kata) o alla
tecnica scelta per il combattimento (kumite). Sarebbe interessante,
basandosi su principi scientificamente validi, predisporne la codificazione
di una metodica di allenamento ideomotorio, specifico per il karate
tradizionale e quantificarne i risultati a breve, medio e lungo termine.
Sport & Medicina, 2000
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