Nevrosi
e psicosi non necessitano solo di terapie verbali o di psicofarmaci;
le discipline marziali, che per propria natura fondono corpo e mente,
hanno in questo campo virtù terapeutiche
E' ormai risaputo che, rispettando determinate condizioni, l’attività
fisica induca un miglioramento dello stato di salute; e migliorare
il proprio stato di salute sembra essere un’ambizione comune
a molti. Ciò che invece merita di essere approfondito è
che a una pratica sportiva sono connessi determinati benefici psicologici,
secondo l’attività fisica praticata.
L’effetto terapeutico dello sport sullo psichismo sembra evidente:
lo sport è fondamentale per un armonico sviluppo della personalità;
è strumento di educazione, di socializzazione, di equilibrio
e di terapia; è fondamentale nello sviluppo ed è di
notevole aiuto nei casi sia di nevrosi sia di psicosi.
Dallo sport uno sviluppo armonico
Lo
sport è quindi per tutti. Esso può essere definito
in base ad almeno quattro elementi psicologicamente importanti:
movimento, gioco, norma, agonismo. In base a questi elementi potrebbe
risultare un elemento fondante, determinante se non addirittura
decisivo per un normale e armonico sviluppo psichico del bambino
e dell’adulto; ecco allora che è il non praticarlo
che può contribuire a determinare alcune patologie psichiche,
tanto più in una società che già di per sé
contiene elementi alienanti. Non è più possibile dunque
considerarlo soltanto un complemento pedagogico.
Si potrà quindi avere un armonico sviluppo delle tre grandi
determinanti della psicologia umana, che, secondo Ossicini, potrebbero
essere definiti come: unità psicofisica, unità conscio-inconscio
e unità relazionale. Nell’attività fisica non
c’è solo il vivere la propria aggressività,
c’è anche l’istinto dell’eros, l’amore,
la sessualità. “La dinamica di gruppo è l’esperienza
attraverso la quale l’individuo esprime delle cariche libidiche,
di relazione istintuale e d’amore che vanno al di là
dell’individuo, dell’egocentrismo, della pura esperienza
relazionale, e che determinano una dinamica di rapporti più
profonda. Lo sport può esercitare un’enorme influenza,
perché c’è uno scarico di tensioni verso ideali;
c’è una catarsi, una capacità di esprimere e
di scaricare una tensione d’amore, un rapporto d’amore
profondo che è un bisogno decisivo nello sviluppo psicologico
umano”.
L’attività sportiva può dunque definirsi psicoterapico-simile,
perché favorisce l’emancipazione dell’Io, la
sua naturale espressione, e un sano ridimensionamento della realtà.
Da essa sono soliti trarre vantaggio soprattutto soggetti nevrotici
di età compresa tra i 20 e i 30 anni (specialmente attraverso
attività quali, per esempio, il judo o il pugilato).
In alcuni gruppi di terapia con soggetti nevrotici, si è
visto che il praticare uno sport consentiva risultati positivi come
un minore bisogno di psicofarmaci o lo sviluppo di un maggiore autocontrollo.
Antonelli parla di sport come “sentinella della salute”.
Se lo sport è efficace come mezzo terapeutico per le nevrosi,
può esserlo in realtà anche per le psicosi; in tali
casi ci si trova però di fronte a problemi che l’attività
sportiva può solo attenuare ed entro certi limiti contenere.
Comunque Ossicini riporta di bambini psicotici trattati con terapie
individuali e di gruppo composte da attività fisica accompagnata
a una psicoterapia con risultati che paiono confortanti.
“
Conosci il nemico e conosci te stesso: in centinaia di battaglie
non sarai mai in pericolo”
Sun Tzu L’arte della guerra
Breve
storia delle arti marziali
Le
arti marziali traggono la loro origine dalla necessità dell’uomo
di imparare a difendersi. Le prime testimonianze ditali forme di
lotta e di autodifesa giungono da antiche statuette babilonesi risalenti
al 3000-2000 a.C. Occorre poi seguire la storia dei popoli, le loro
evoluzioni, i loro commerci e spostamenti per arrivare a trovarne
tracce più evidenti in India e in Cina intorno al 1000 a.C.
Le condizioni della storia favorirono il nascere e il progredire
di queste arti facendo sì che si fondessero movimenti corporei
con tradizioni religiose e mediche. Si hanno notizie più
certe su di esse solo da quando ebbe origine la trasmissione scritta
degli esercizi delle varie discipline, cioè tra il V secolo
a.C. e il III secolo d.C.
Esiste una leggenda che fissa quasi la data ufficiale della comparsa
delle arti marziali: si narra che un monaco buddista indiano di
nome Bodhidharma, nel 520 d.C., giunse in Cina nel famoso tempio
di Shaolin; e lì si fermò per diffondervi la dottrina
del Buddha. Bodhidharma insegnava metodi e pratiche utili a raggiungere
una buona forma fisica e contemporaneamente miranti a raggiungere
un’unione armonica tra lo spirito e il corpo; i suoi principi
discendevano dal più antico yoga indiano. A parte i dubbi
storici sull’attendibilità ditale leggenda, è
sicuro che pratiche mentali come la meditazione e fisiche come gli
esercizi marziali erano aspetti complementari del buddismo: l’arte
marziale veniva così considerata come un sentiero che, in
virtù dell’unione tra corpo e mente, poteva condurre
alla perfezione spirituale. Le tecniche apprese erano poi di enorme
aiuto ai monaci buddisti per difendersi dai predoni durante i loro
viaggi.
Sempre grazie alla storia, lo sviluppo di queste arti proseguì
verso Est. Stili nuovi e tecniche nuove sì svilupparono e
si diffusero in tutto l’Oriente sotto l’influsso di
componenti ambientali, filosofiche e religiose. Sistemi completi
di arti marziali giunsero in tutto l’Est e il Sud-Est asiatico;
ognuna di queste correnti arricchiva la concezione stessa di arte
marziale, aggiungendo ad essa qualcosa di proprio e originale.
Bodhidharma, il fondatore dello Zen, è spesso citato anche
per avere detto: “Sebbene la via del Buddha sia predicata
per l’anima, corpo e anima sono inseparabili”.
Questo è soltanto uno tra i numerosissimi esempi per dimostrare
che, diversamente da quanto risulta dalla nostra cultura, facendola
risalire, in genere, alla separazione tra corpo e mente operata
da Cartesio, la psicosomatica ha radici molto più antiche.
Due
classi di arti marziali
Così
come sono giunte a noi oggi, le arti marziali possono essere suddivise
in due grandi classi: le arti marziali morbide e le arti marziali
dure, così evolutesi per fini e scopi diversi.
La scuola dura si avvale di colpi diretti e precisi, con lo scopo,
si potrebbe dire, di opporre forza alla forza dell’avversario.
Arti marziali dure sono, per esempio, il kung-fu,la thai-boxe, il
full contact.
La scuola morbida si caratterizza invece per movimenti ampi, circolari,
lenti e, appunto, morbidi, senza rigidità muscolare: lo scopo
è principalmente dirigere la forza dell’avversario
contro l’avversario stesso. Arti marziali morbide sono, per
esempio, il tai chi chuan, il judo, l’aikido. A ben guardare
però molto spesso la suddivisione tra arti dure e morbide
non è così marcata: tra gli stili morbidi (definiti
anche “interni”, che enfatizzano la filosofia e la meditazione)
e gli stili “duri” (definiti anche “esterni”,
che enfatizzano invece la competizione e il combattimento) ci sarebbe
in realtà un continuum.
Un’arte marziale è una delle poche attività
che può essere praticata lungo l’intero arco della
vita. Non è necessario avere uno scopo da raggiungere, basta
semplicemente vivere ciò che si sta facendo. L’arte
marziale è un viaggio in cui importante è arricchirsi
lungo la strada; non tanto arrivare a destinazione, se una destinazione
finale esiste. L’importante è il processo, non il prodotto.
Benefici
psicosociali
I
paralleli tra la psicoterapia e le arti marziali sono diversi. Si
può affermare che tutte le arti marziali possono essere concepite
come una sorta di psicoterapia. L’efficacia dell’approccio
fisico è attribuibile alle basi fisiche (fisiologiche) dell’esperienza.
Piaget mostrò che i bambini imparano primariamente attraverso
vie visuali, tattili e cinestetiche, che sono più tardi integrate
in cognizioni più elevate; Stern sostenne che la modalità
fisica dell’esperienza è presente lungo tutta la vita,
e la capacità di ciò che egli chiama “percezione
transmodale” indica che tale apprendimento fisico è
automaticamente trasportato alla sfera cognitiva ed emozionale.
Fuller ritiene che alcune arti marziali posseggano qualità
che sostengono la salute psicologica e promuovano cambiamenti personali
in una direzione socialmente desiderabile. Egli punta il dito sul
fatto che i paralleli teorici tra la psicoterapia e le arti marziali
sono diversi. Parsons trova anche una certa similarità di
vocazione tra lo psicanalista e il praticante arti marziali; Nardi
esamina i paralleli tra la rational emotive therapy di Ellis e alcuni
principi della pratica marziale (per esempio il concetto di mushin,
cioè uno stato in cui la mente non si fissa in particolar
modo su qualcosa, ma rimane aperta e disponibile verso tutte le
cose e riflette come farebbe uno specchio). Come Parsons, egli considera
le capacità di uno psicoterapeuta e di un maestro di arti
marziali come essenzialmente complementari. Saposnek discute le
similarità tra i principi dell’aikido e le tecniche
impiegate in terapia familiare strategica (per esempio una visione
circolare della causalità, l’uso del paradosso e altri).
Gleser e Brown fanno notare che il concetto di ju (morbido), cioè
il cedere per usare la forza dell’avversario contro l’avversario
stesso, èun concetto che è stato — inconsapevolmente
applicato in terapia dinamica e nelle psicoterapie strategiche di
parecchi Autori fra cui: Erikson, Watzlawitck, Rogers, Bandler e
Grinder. Reinhard collega l’aikido al metodo Feldenkrais.
Secondo Seitz e collaboratori le arti marziali hanno molto da offrire
alla psicoterapia, particolarmente in termini di energia (chi o
ki), per quanto riguarda il corpo, la mente e le relazioni interpersonali.
Un’efficace gestione dell’energia è una dimensione
importante nelle arti marziali, come nelle professioni riguardanti
la salute mentale. A ciò si potranno anche aggiungere i concetti
di distanza, tempi e posizione.
Weiser e collaboratori propongono le arti marziali come utili, appunto,
per la salute mentale oltre che per quella fisica. Rappresenterebbero
dunque una legittima forma di terapia sia per le nevrosi sia per
alcune malattie mentali croniche, già di per se stesse, ma
soprattutto in aggiunta alla psicoterapia verbale: esse sono tanto
più utili in sostegno alla psicoterapia verbale in soggetti
che hanno difficoltà di relazione con una modalità
verbale, come pazienti psicosomatici e alessitimici. Come dimostrato
da Kutz e collaboratori riguardo alla pratica della meditazione,
le arti marziali evidenziano problemi che, osservati, possono essere
trattati in psicoterapia: si rivelano per esempio in maniera chiara
le difficoltà di relazione i sentimenti di paura e la regolazione
delle distanze interpersonali. La pratica degli esercizi delle arti
marziali può direttamente migliorare la salute mentale: favorisce
l’integrazione corpo-mente, il rilassamento, l’attenzione,
la comunicazione, l’autoaccettazione; insomma, come una psicoterapia
conclusa con successo, una pratica adeguata delle arti marziali
innalza i sentimenti di armonia, di controllo e il proprio senso
di autostima. Come nella terapia verbale, il processo può
essere doloroso e frustrante, ma favorire un’occasione di
crescita, in particolare per i soggetti nevrotici, per coloro i
quali soffrono di sentimenti di inadeguatezza, un basso senso di
autostima, ansia e depressione.
Stuart e Sacco le vedono, inserite in un adeguato setting terapeutico,
come uno straordinario aiuto, una forma di ego-bu ilding psychotherapy.
Tali attività sarebbero anche sfruttate nel campo sociale,
per esempio nel trattamento di adolescenti violenti.
Effetti a breve termine
Riguardo
gli effetti a breve termine delle arti marziali esistono ancora
pochi studi.
In uno di questi, una singola sessione di jogging o di sollevamento
pesi portava a una riduzione della tensione, dell’ansia e
della depressione nei soggetti subito dopo l’esercizio. Una
singola sessione di karate invece non portava a cambiamenti. Sembrerebbe
perciò necessario un minimo di attività perché
avvengano certi cambiamenti. Al contrario una singola seduta di
tai chi chuan aiuterebbe a ridurre i livelli di stress subito dopo
un’esperienza stressante.
e a lungo termine
Esiste
invece una vasta letteratura sugli effetti a lungo termine della
pratica. Varie arti marziali sono state studiate. In generale, si
evidenzierebbe una relazione inversa tra cinture nere o tempo di
pratica e ansia ostilità e nevroticismo.
Ci sarebbe una correlazione positiva tra cinture nere (o periodo
di pratica) e selfconfidence, fiducia in se stessi e autostima.
Il
principio del cedere, naturalmente, non è sempre raccomandabile,
sia nel judo sia in psicoterapia. Per esempio, quando potrebbe nuocere
al paziente, oppure quando manca da parte di questi la volontà
o la motivazione, Il principio del ju è applicabile con maggior
successo con pazienti “oppositori”, riuscendo invece
difficile con soggetti passivi.
Una serie di studi longitudinali mostra che la pratica delle arti
marziali favorisce un decremento dell’ostilità, rabbia
e la sensazione di vulnerabilità agli attacchi. La pratica
favorisce anche un incremento dell’autoconfidenza, autostima
e self-control.
Va però fatto notare, come fa anche la Madden come non sia
corretto studiare gli aspetti psicologici di chi pratica le arti
marziali in generale. Tali aspetti, infatti, varierebbero sensibilmente
tra i praticanti dei diversi stili e delle diverse arti, proprio
per i concetti e le filosofie che ne stanno alla base. Un karateka,
quindi, sarebbe molto diverso da un judoka.
In uno studio di Foster studenti di karate mostravano un decremento
dell’ansia di tratto, mentre quelli di aikido non facevano
altrettanto. Anche se tale studio presentava alcuni problemi metodologici,
evidenzia comunque l’aspetto che certe arti marziali possano
portare a cambiamenti più o meno rapidamente di altre.
Da quando si è ritenuto che le arti marziali possano offrire
benefici psicologici, un grande numero di persone ha guardato a
esse come a un aiuto per trattare disordini psicologici. Guthrie
ha trovato, per esempio, che donne guarite da abusi psicosessuali,
disordini alimentari, abusi di sostanze e crescita in famiglie disfunzionali
riportavano che il karate era stato loro di aiuto per la guarigione.
In un altro studio Weiser e collaboratori mostrarono che la pratica
del karate Shotokan aveva aiutato un paziente a raggiungere più
velocemente risultati in terapia verbale. Parecchi gruppi sono stati
usati per lo studio delle arti marziali come trattamento psicologico.
Il judo, per esempio, risulterebbe essere utile a soggetti disabili,
ma potrebbe anche favorire l’evoluzione di una psicoterapia,
in particolar modo in soggetti regrediti e pazienti psicotici violenti
difficilmente raggiungibili con una terapia verbale. Anche il tai
chi chuan viene usato con successo in soggetti con disabilità
fisiche.
L’aikido negli adolescenti con problemi comportamentali fornirebbe
maggiori incrementi nell’autostima rispetto al trattamento
tradizionale, e altri studi rivelano che le arti marziali possono
ridurre problemi comporta-mentali nei bambini. L’aikido è
stato anche usato come strategia d’intervento in studenti
con gravi disturbi emozionali.
Uno degli studi più citati in letteratura è quello
condotto da Trulson: veniva così evidenziato che adolescenti
identificati come delinquenti che avevano seguito per sei mesi un
corso di taekwondo tradizionale (con tecniche di meditazione, brevi
letture sul taekwondo e apprendimento delle tecniche fisiche) mostravano
un decremento dell’aggressività e dell’ansia
e un incremento dell’autostima. Contrariamente, in un altro
gruppo che aveva seguito un corso di taekwondo moderno (solo tecniche
fisiche), i ragazzi mostrarono un’aumentata tendenza alla
delinquenza e un aumento dell’aggressività.
Mente e corpo
La
arti marziali non possono essere definite precisamente con il termine
di sport quale noi lo intendiamo oggi: questo perché sono
diverse nella concezione e negli scopi; hanno una tradizione e una
componente filosofica e formativa che vanno infatti ben oltre la
pura parte agonistica. Esse sono nate per motivazioni ed esigenze
precise, e anche il loro corso storico ha un suo significato. Per
loro stessa definizione, il loro scopo è il perfezionamento
del carattere.
Si può subito notare una differenza fondamentale: gli sport
occidentali tendono a enfatizzare la competizione, mentre le arti
marziali orientali hanno posto più l’accento sull’autoconoscenza.
Hanno quindi alla base una filosofia inerente al loro stesso modo
di vivere, che enfatizza tra l’altro l’osservazione
rispetto all’azione, l’integrazione tra corpo e mente,
e ha una forte componente meditativa. Ed è perciò
che anche gli aspetti non-fisici delle arti marziali hanno un’influenza
a lungo termine sui cambiamenti psicosociali dei partecipanti. Le
ricerche che comparano le arti marziali con altre attività
fisiche suggeriscono in genere che le prime producono cambiamenti
psicosociali migliori sia in qualità sia in quantità
rispetto a quelli prodotti da molte altre attività. Il tai
chi chuan, per esempio, è ritenuto la pratica marziale per
eccellenza per ridurre l’incidenza dello stress. Rispetto
ad altre attività fisiche, riduce l’incidenza di incubi
notturni e conduce a maggiori decrementi nella rabbia e disturbi
d’umore. Vi sono casi in cui i risultati forniti da una terapia
marziale sembrerebbero essere migliori di quelli offerti da una
psicoterapia. Questo probabilmente perché le arti marziali
consentono, per loro propria definizione, un soddisfacente lavoro
sia sul corpo sia sulla mente. Non si sa però esattamente
quali aspetti influiscano maggiormente sui vantaggi psicologici
offerti dalla pratica: potrebbe essere più l’aspetto
fisico, o la filosofia che soggiace a ognuna di esse, o ancora l’influenza
dovuta al maestro (molto più di un semplice allenatore);
o, ancor più probabile, la combinazione di tutti questi fattori
messi insieme.
Esistono invece alcune problematiche che non sembra possano essere
trattate con le arti marziali. Jasnoski e collaboratori, per esempio,
hanno trovato che l’esercizio aerobico era efficace nel ridurre
le caratteristiche della personalità di tipo A (aggressività.
iper-allarme, emozioni ostili), mentre con l’aikido non si
otteneva lo stesso risultato.
Resta poi da considerare il fatto che non si può prescrivere
una pratica che sia uguale per tutti: bisognerebbe valutare attentamente,
per esempio, se un soggetto è maggiormente predisposto a
un’arte marziale offensiva oppure difensiva.
Va infine considerato che le arti marziali sono controindicate in
alcuni casi: in particolare sono controindicate per soggetti che
potrebbero usare le tecniche di combattimento in maniera inappropriata,
come personalità sociopatiche, o persone che fanno abuso
di droghe o alcolici.
A seguito delle ipotesi sulle possibilità psicoterapeutiche
offerte, si prospettano perciò molteplici sviluppi di ricerca,
riguardo al loro impiego come psicoterapia, da sole, o come un’utile
integrazione alle terapie verbali.
Alessandro
Mahony
Psicologo, ricercatore universitario Cattedra
di Psicologia Clinica
Facoltà di Medicina e chirurgia Università degi Studi
di Brescia
Sport&Medicina
2002
|